giovedì 24 marzo 2016

Il 17 Aprile Vota Sì per fermare le trivelle



Il Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori” ha aderito ufficialmente al Comitato nazionale “Vota sì per fermare le trivelle” in vista del Referendum del 17 Aprile. Allo stesso modo a livello locale il nostro coordinamento ha partecipato alla costituzione di un comitato provinciale.
La campagna referendaria si sta svolgendo nell’assordante silenzio dei media, che stanno assecondando il manifesto intento del Governo di affossare il referendum non raggiungendo il quorum del 50%+1 degli elettori. Tale intento è reso ancora più evidente dalla scelta della data delle consultazioni: il 17 Aprile, ovvero la prima data disponibile, restringendo il più possibile l’arco di tempo in cui svolgere la campagna referendaria, anche a costo di non accorpare il referendum alle elezioni amministrative che si terranno ad inizio Giugno in numerosi Comuni italiani. Per quanto sul piano formale la scelta è rispettosa del Decreto 98 del 2011 che prevede che le elezioni amministrative o politiche non siano abbinate ai referendum, il Parlamento italiano avrebbe potuto votare una nuova legge ad hoc. Il costo economico è salatissimo, quantificato in almeno 300 milioni di euro di soldi pubblici.
Il quesito referendario è l’unico rimasto dei sei a suo tempo proposti da un gruppo di Regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto. Cinque di quei quesiti sarebbero stati di fatto superati dalle intervenute disposizioni della Legge di Stabilità 2016. Per quanto riguarda due di questi ultimi cinque quesiti alcune Regioni hanno però presentato un ricorso, del cui esito si rimane ad oggi in attesa. La Consulta ha infatti bocciato il ricorso per un vizio di forma, ma le Regioni sembrano intenzionate a ripresentarlo.
Percomprendere il quesito referendario è necessario fare una piccola cronistoria. Iniziamo ricordando che ad oggi non è possibile richiedere nuovi permessi per la ricerca e l’estrazione di gas e petrolio entro le 12 miglia dalla costa, mentre le attività esistenti possono proseguire a tempo indefinito fino ad esaurimento del giacimento. Il limite di 12 miglia era stato stabilito nel 2010 dal “Decreto Prestigiacomo”, emanato a seguito dell’esplosione di una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico (Aprile 2010), e riguardava inizialmente solo le aree marine protette. Nel 2012, il Decreto legge “Misure urgenti per la crescita del Paese” del governo Monti ha esteso il limite previsto dal precedente decreto all’intero litorale nazionale, stabilendo che le richieste delle compagnie debbano essere sottoposte a Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) e al parere degli enti locali interessati. Queste direttive riguardano però solamente le nuove autorizzazioni e non le ricerche ed estrazioni in essere all’entrata in vigore del Decreto Prestigiacomo. Tra le modifiche della Legge di Stabilità 2016 citiamo l’eliminazione del parere sul rinnovo delle concessioni (di durata di 5 anni) da parte degli enti locali posti in un raggio di 12 miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività.
Il referendum riguarda l’eliminazione del prolungamento a tempo indefinito delle autorizzazioni alle estrazioni di gas e petrolio attualmente in essere entro la distanza di 12 miglia dalla costa (poco più di 22 km). Non vi sono invece effetti diretti dell’esito del referendum sulle attività situate oltre le 12 miglia dalla costa e su quelle situate sulla terraferma.
Tra le principali ragioni che ci spingono a sostenere il sì c’è il rischio di un disastro ecologico connesso ad attività di questo genere, particolarmente inquietante in un mare chiuso come il Mediterraneo, ed ancor di più per l’Adriatico, il cui ecosistema, in un caso simile, sarebbe completamente devastato, con conseguenze facilmente immaginabili sull’economia collegata al turismo. Al di là della possibilità di incidenti, la preoccupazione è collegata anche all’utilizzo di tecniche come l’air gun, pericoloso per la fauna marina, e al rischio di subsidenza (cioè dello sprofondamento) dei fondali. Inoltre, secondo i dati ufficiali di ISPRA e Ministero dell’Ambiente recentemente diffusi da Greenpeace, in due casi su tre in prossimità delle piattaforme si riscontrano contaminazioni significative dei sedimenti marini. Greenpeace ha anche evidenziato come delle quasi 150 piattaforme operanti nei mari italiani siano stati resi noti i risultati delle analisi solamente in 34 casi.
Gli stessi dati governativi peraltro parlano di un potenziale contributo al consumo nazionale di gas  pari al 2,1% dei consumi annui, mentre per quanto riguarda il petrolio si parla dello 0,8% (riferimento 2014): si parla quindi di quantitativi modesti. Sulla qualità degli idrocarburi presenti nei mari italiani sono inoltre state avanzate numerose perplessità. Insomma, il gioco non vale la candela, tant’è vero che numerosi paesi stanno facendo marcia indietro riguardo ad operazioni di questo tipo: Croazia, Francia e gli stessi USA.
La Croazia lo scorso autunno ha sospeso i progetti per le piattaforme per la ricerca del petrolio nel mare Adriatico ed il delegato dell'Ambasciata di Croazia in Italia Llija Zelalić ha invitato l’Italia a fare altrettanto. La Francia, nel Febbraio 2016, ha dichiarato lo stop a nuove trivellazioni in mare e in terraferma. Negli USA pochi giorni fa il Governo ha deciso di ritirare il suo piano per aprire l’Oceano Atlantico ai sondaggisismici e alle trivelle in Virginia, North Carolina, South Carolina e Georgia.  
La campagna per il no punta sulla necessità di autonomia energetica, sull’aumento di rischi derivanti dal maggiore incremento del traffico di petroliere nel Mar Mediterraneo, sulla questione occupazionale, sul fatto che l’estrazione di idrocarburi oltre le 12 miglia è comunque consentita. Tutte queste considerazioni non tengono conto del fatto che da anni ormai la produzione di energia da fonti rinnovabili è in costante aumento, ed è in questa direzione che andrebbero fatti gli investimenti strategici: nel 2015, secondo i dati del Gestore dei Servizi Energetici (GSE) la percentuale di energia da fonti rinnovabili consumata è stata pari al 17,3%, +4,3% rispetto al 2010. Nell’anno precedente c’è stato un calo complessivo del consumo di energia pari al 3,8% (-1,8% del consumo interno lordo di petrolio e -11,6% del consumo interno lordo di gas naturale). Peraltro numerose stime parlano di opportunità occupazionali nei settori dell’energia verde superiori rispetto a quelle provenienti da fonti fossili a parità di energia prodotta. Evidenziamo inoltre che l’attività delle piattaforme esistenti non cesserebbe da un momento con l’altro. C’è quindi il tempo (ed è questo il momento) di ripensare l’attuale modello energetico e, più in generale, il modello di sviluppo, anche dal punto di vista occupazionale.
Oltre alla campagna per il no, peraltro marginale, ci troviamo di fronte ad un’aperta campagna per l’astensionismo, che si sposa alla perfezione col silenzio dei media. Troviamo eticamente molto discutibile che i nostri rappresentanti invitino i cittadini a disertare le urne in uno dei pochi momenti in cui possono esprimere direttamente la loro posizione, per quanto limitatamente ad un ambito ben preciso. Gli stessi rappresentanti che ignorano le alte percentuali di astensionismo nel celebrare le proprie vittorie elettorali, arrivano ad incentivarlo in occasione di referendum “scomodi”.
Il referendum, secondo quanto riportato nel manifesto del comitato nazionale, va inteso come un primo passo verso la richiesta di una strategia energetica nazionale finalmente orientate verso il risparmio energetico e la produzione di energia da fonti rinnovabili. Una strategia opposta a quella attuale, che è affetta da miopia e guarda solo al passato, verso un modello di sviluppo novecentesco. Un modello di sviluppo che interessa da vicino anche il territorio della Provincia di Cremona.
Se gli effetti diretti del referendum riguardano “solamente” le aree costiere – e potrebbero interessarci solo in quanto “vacanzieri” o “villeggianti estivi” – quelli dell’attuale politica energetica si riflettono in maniera pesante sul territorio provinciale. Giusto poche settimane fa sono state presentate altre richieste di trivellazioni a scopo esplorativo in una grossa area a cavallo tra le province di Cremona, Mantova e Parma. Una richiesta avanzata da Pengas Srl, azienda che risulta non essere nemmeno dotata di un sito internet ed il cui capitale sociale è pari a 120.000 €, una somma con cui difficilmente si arriva ad acquistare una villetta a schiera! Altre richieste di questo genere sono già state avanzate in passato un po’ in tutta la Provincia. Altra fonte energetica non rinnovabile è il metano: al riguardo ricordiamo i numerosi progetti di stoccaggio in sovrapressione (alcuni dei quali già avviati) che interessano un’ampia fascia di comuni tra il Cremonese ed il Cremasco. Nella nostra Provincia questi stoccaggi si collocano vicino a sorgenti sismogeniche: ricordiamo che la scorsa estate in Olanda è emersa la correlazione tra attività di estrazione del gas e fenomeni sismici correlati alla subsidenza. I progetti inoltre vengono spesso portati avanti senza la necessaria trasparenza nei confronti delle popolazioni interessate.
Per tutte queste ragioni siamo convinti che anche in Provincia di Cremona il 17 Aprile sia necessario “votare sì per fermare le trivelle”.

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